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Il 17 agosto del 1896 viene registrata all’anagrafe di Udine una bambina nata il giorno precedente, destinata ad entrare nell’immaginario collettivo: Tina Modotti.
Pochi giorni dopo un anarchico socialista, di professione calzolaio, le fece da padrino al battesimo, quasi introducendola alla vita rivoluzionaria che avrebbe vissuto e che, forse, ha addirittura sminuito presso il grande pubblico, la sua figura di fotografa.
Una fotografa “rivoluzionaria”
Già prima di lasciare l’Italia a 17 anni, per raggiungere il padre emigrato tempo prima a San Francisco, Tina aveva fatto pratica nello studio fotografico dello zio paterno, dove aveva appreso le sue prime nozioni di fotografia.
Una volta arrivata negli Stati Uniti lavorò in fabbrica, dedicandosi anche al teatro. Dopo alcuni anni, sposatasi nel frattempo col pittore Roubaix de l’Abrie Richey, soprannominato “Robo”, si trasferì a a Los Angeles dove ebbe modo di sperimentare una breve parentesi nel mondo del cinema.
Qui, grazie al marito, conobbe il fotografo Edward Weston (di cui abbiamo parlato anche qui), diventando sua modella e, più tardi, sua amante. Robo, andato in Messico dopo aver scoperto la sua infedeltà, venne seguito poco dopo da Tina che, però, giunse a Città del Messico troppo tardi, dopo che il marito era morto da ormai due giorni, a causa del vaiolo.
Ma il Messico è ormai destinato a diventare la sua patria adottiva: qui tornò due anni dopo assieme a Weston, entrando in contatto con i circoli bohèmien della capitale, con esponenti dell’ala radicale del comunismo, e anche con un’altra rivoluzionaria, la pittrice Frida Kahlo, militante comunista e femminista.
Insieme a Weston apre uno studio di ritrattistica a Città del Messico, lavorando come assistente in camera oscura, poi come contabile e infine come assistente creativo.
Ma è nel 1927, lo stesso anno in cui si iscrive al Partito Comunista Messicano, che inizia a coniugare le sue grandi passioni: attivismo politico e fotografia.
Tina utilizza la fotografia “come strumento di indagine e denuncia sociale“, con foto che vanno in una direzione specifica: “l’esaltazione dei simboli del lavoro, del popolo e del suo riscatto“.
La fotografia per lei non doveva essere “artistica”, ma denunciare “senza effetti speciali” la realtà nuda e cruda: “Desidero fotografare ciò che vedo, sinceramente, direttamente, senza trucchi, e penso che possa essere questo il mio contributo a un mondo migliore“.
In questo periodo venne anche scelta come “fotografa ufficiale” del movimento muralista messicano.
Nel dicembre del 1929 una sua mostra venne pubblicizzata come “La prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico“, raggiungendo l’apice della sua carriera di fotografa, purtroppo destinata ad interrompersi improvvisamente.
All’incirca un anno dopo, infatti, fu espulsa dal Messico e, a parte poche eccezioni, non scattò più fotografie.
Gli ultimi anni
Tina viaggiò così in giro per l’Europa per poi stabilirsi a Mosca, in Russia, dove si unì alla polizia segreta sovietica, che la utilizzò per varie missioni in Francia ed Europa orientale, probabilmente a sostegno della “Rivoluzione Mondiale” che aveva in mente.
Quando scoppiò la Guerra civile spagnola, lei e Vittorio Vidali, sotto i nomi di battaglia di Maria e Comandante Carlos, si unirono alle Brigate Internazionali e, dopo il collasso del movimento repubblicano, tornò in Messico sotto falso nome.
Il 5 gennaio del 1942, dopo aver cenato con amici, Tina fu probabilmente colpita da un infarto, morendo nel taxi che la stava riportando a casa. Aveva 46 anni.
Dopo aver avuto la notizia della sua morte, Diego Rivera affermò che fosse stata assassinata, e che Vidali stesso, per le sue attività sospette nella Spagna rivoluzionaria, fosse stato l’autore dell’omicidio. Il poeta Pablo Neruda scrisse per lei un epitaffio, parzialmente riportato sulla sua tomba, nel quale esprimeva la sua indignazione per le accuse fatte a Vidali.