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Il Manifesto della Razza

Il 15 luglio del 1938 viene pubblicato Il Fascismo e i Problemi della Razza, meglio noto come Manifesto della Razza, un documento che compare inizialmente in forma anonima sul Giornale d’Italia e che meno di un mese dopo verrà riproposto sul primo numero della rivista La Difesa Della Razza, stavolta però firmato da 10 scienziati.
Quel documento fornirà le basi scientifiche per le successive leggi razziali, promulgate in Italia tra il 1938 e il 1945.

Oggi, in ambito scientifico, si ritiene che il concetto di razza sia inapplicabile al genere umano, perché le categorie razziali non hanno basi biologiche.
Non si possono caratterizzare i diversi sottogruppi geografici della specie umana attraverso le razze, perché in molti casi la diversità genetica tra individui appartenenti alla stessa popolazione è superiore a quella di soggetti provenienti da altri gruppi etnici.

La Condizione degli Afroamericani

Nonostante questo, un’ottantina di anni dopo la pubblicazione di quel falso scientifico che fu il Manifesto della Razza, la civiltà occidentale continua a fare i conti con problemi razziali, tornati violentemente agli onori delle cronache con l’omicidio di George Floyd avvenuto il 25 maggio scorso e con le conseguenti manifestazioni di protesta diffusesi in tutto il mondo.

Il concetto di razza oggi è un costrutto sociale che identifica gruppi diversi all’interno di una popolazione. Tali gruppi possono godere di diritti o trattamenti differenti, come nel caso degli afroamericani.

Negli Stati Uniti la storia dell’integrazione e della lotta per la parità dei diritti è lunga e travagliata e comprendere la condizione degli afroamericani osservandola da qua non è cosa facile, perché il nostro continente non ha mai visto l’importazione massiccia di eserciti di schiavi provenienti dall’Africa. Quegli uomini hanno lottato per emanciparsi dalla loro condizione di schiavitù e dopo alcune centinaia di anni non hanno ancora ottenuto un’effettiva parità di trattamento (si pensi che il primo stato americano a rendere illegale la schiavitù è stato il Rohde Island non 1652, da allora sono passati 368 anni).

Untitled. 2006-15. Sally Mann/Gagosian Gallery

Vision & Justice

Nel 1926, Shadrach Emmanuel Lee – allora studente di scuola superiore a New York – chiese alla professoressa come mai nei libri di storia non si trovasse neppure un afroamericano. L’insegnante rispose che non c’erano perché non avevano fatto nulla per meritare di essere ricordati. Quella domanda impertinente costò a Shandrach l’espulsione dalla scuola, dove decise di non tornare mai più.
Si dedicò all’arte, diventando musicista jazz e pittore. Nelle sue opere inseriva immagini di afroamericani, perché voleva che la gente sapesse che esistevano anche loro.
Come ci ha insegnato anche la storia di Frederick Douglass, Shadrach Emmanuel Lee sapeva che la lotta per affermare la dignità della vita umana non può essere condotta senza le immagini, senza giustizia rappresentativa.

Frederick Douglass fotografato da Samuel J. Miller. 1847-52.

E lo sa bene anche Sarah Lewis, nipote di Lee e professoressa all’Università di Harvard, dove tiene un corso chiamato Vision & Justice – incentrato sull’interazione tra arte, cultura e giustizia sociale – che analizza la contronarrativa creata dagli artisti afroamericani, con la quale hanno costruito il profondo senso di invisibile dignità del loro gruppo di appartenenza nel corso degli ultimi due secoli.

Le due copertine di Vision & Justice di Aperture

Nel 2016 il corso della Lewis ha ispirato l’omonima pubblicazione della Aperture Foundation, della quale Sarah è editor.
Vision & Justice ha raccolto i lavori di fotografi afroamericani e i commenti di studiosi, scrittori, poeti e drammaturghi contemporanei. Il successo è stato tale che la Aperture Foundation ha dato seguito all’iniziativa, pubblicando ogni anno cinque saggi degli studenti di Sarah, su temi legati alle tematiche razziali in ambito fotografico.

Oluchi, Katouché, Adia, Noémie, Kadra, Kara Young, Cynthia Bailey, Tyra Banks, Liya, Beverly Johnson, Gail O’Neill, Karen Alexander, Shakara, Clara Benjamin, Naomi Campbell and Iman. New York, 2000. Foto di Annie Leibovitz

Penso che la principale linea di tendenza o spostamento che si è verificato in relazione alla razza e alla sua rappresentazione in fotografia, sia il passaggio dalla fotografia come impresa correttiva alla fotografia come un modo per celebrare la complessità della vita umana.

Per impresa correttiva intendo il controarchivio che i fotografi neri nel periodo precedente alla guerra civile hanno creato per offrire un correttivo, al modo in cui, nel diciannovesimo secolo, la scienza razziale aveva tentato di usare la fotografia per mostrare la disumanità degli afro-americani.

Ecco perché Frederick Douglass stava di fronte alla macchina fotografica. Doveva creare questo contro-archivio, per arginare la proliferazione di stereotipi.

Quindi, la fotografia è passata da questo periodo correttivo a una modalità più celebrativa; Penso che Jamel Shabazz sia un grande esponente di questa corrente, perché racconta davvero la vita nera.

Sarah Lewis per New York Times
Colours. 2014. Foto di Radcliffe Roye

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Fotografo

Fotografo e videomaker, dal 2009 si divide tra fotografia di matrimonio e documentaria. Come documentarista ha pubblicato su National Geographic Italia, L'Espresso e riviste minori. Come matrimonialista ha avuto l’opportunità di lavorare in Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera e Bermuda. http://www.francescorossifotografo.it/